Guerre: una soluzione ci sarebbe
Con l’invasione russa in Ucraina è stata data una robusta spallata alle convinzioni europee riguardanti la sensazione che il vecchio continente, attraverso la Nato prima e poi con l’Unione Europea, si fosse messo al riparo dalle turbolenze che agitano il mondo dalla fine della seconda guerra mondiale.
La guerra iniziata nel febbraio 2021 ha perciò scosso violentemente l’Europa, costringendo le nazioni più occidentali del vecchio continente a partecipare, all’inizio quasi timidamente, e poi, almeno per quel che riguarda i governi, sempre più convinte al sostegno, finanziario e militare del paese aggredito. Le opinioni pubbliche di questi paesi, invece ondeggiano percentualmente tra pacifismo ( qualsiasi cosa questo termine significhi), e sostegno ad uno o l’altro dei contendenti. Nell’Europa orientale invece è largamente diffuso il sentimento anti-russo sia nelle sfere della politica che tra l’opinione pubblica.
La maggior parte dei commentatori ed analisti conviene che il motivo reale del conflitto è il tentativo della Russia di mettere in crisi il mondo a guida americana, dato che l’egemone d’oltre atlantico versa in una situazione domestica di profonda crisi sociale e di identità. E’ logico e realistico supporre che la Cina guardi allo sforzo russo con una certa simpatia ed interesse, dato che essa si è già palesemente candidata a divenire il leader di quello che, con buona ragione, dovrebbe essere il vero nuovo ordine mondiale.
Dal 7 ottobre, ad imbrogliare ulteriormente la situazione si è aggiunto il nuovo/vecchio conflitto israelo-palestinese, che come nessun altro è in grado di radicalizzare le opinioni pubbliche mondiali. L’anti-sionismo e l’anti-islam, uniti ai destini di israeliani e palestinesi, sono fuoco sulle polveri sempre calde del medio oriente.
Pochi riflettono sul fatto che siamo stati proprio noi europei, con infinite persecuzioni e Pogrom nel corso dell’ultimo millennio, a spingere gli Ebrei a cercarsi un luogo da eleggere a Patria, e che realizzando questo progetto hanno però legato il proprio destino a quello del popolo palestinese, creando quell’instabilità ed inimicizia che ora è sul punto di incendiare il mondo.
I paesi dell’aera, a cominciare da Turchia ed Iran, ma anche l’Arabia saudita e le altre monarchie del Golfo più l’Egitto hanno sviluppato strategie globali, che non vogliono essere più subordinate all’egemone di turno, e con il combinato disposto di arsenali pieni di armamenti ultra moderni sono disposti a giocarsi il loro posto alla tavola imbandita delle risorse mondiali da contendersi.
E’ chiaro che la Cina sta, al momento, alla finestra, aspettando l’occasione propizia per sferrare il colpo della tigre. Se a ciò aggiungiamo, per esempio, la guerra in Congo che da decenni sta causando la morte di milioni di persone e la devastazione di un intera area geografica senza destare, più di tanto, l’interesse internazionale.
Oppure, per rimanere vicino a noi, guardare alla Serbia che sta ammassando armi e soldati al confine con il Cossovo, quasi a voler ripetere la strategia russa nel Donbas attuata prima dell’invasione in Ucraina, e che gli osservatori più attenti danno come prossimo focolaio pronto ad incendiare i Balcani, abbiamo il polso (febbricitante) dell’odierna situazione globale.
Dove sta andando allora veramente il mondo?
La corsa agli armamenti non è più solo un modo di dire. Nel 2023 la spesa per le armi e le tecnologie militari è cresciuta per l’nono anno di fila, fino a raggiungere l’incredibile cifra di 2240 miliardi di dollari.
Tra i decisori politici e gli addetti ai lavori europei si parla ormai apertamente di preparare le rispettive opinioni pubbliche all’idea di una guerra sul territorio continentale. Vedremo forse i politici cimentarsi con narrazioni atte a modificare e influenzare in questo senso la pedagogia nazionale. Già nelle settimane scorse il ministro della difesa italiano ha ventilato una non ben chiara creazione della riserva militare.
Sta di fatto, che al contrario dell’immediato dopo-guerra, quando si fondò l’Onu, ed in realtà si creò un mondo di potere bipolare tra Urss e Usa, e perciò, che piaccia o no, abbastanza ordinato e controllabile anche nel consesso del Palazzo di Vetro; ora invece, in un mondo senza chiari punti di riferimento, dove tutti i paesi con velleità di potenza hanno compreso quanto la realtà internazionale sia al tempo stesso pericolosa e piena di opportunità se solo si dispone di forze armate abbastanza agguerrite, si assiste ad una corsa a fare alleanze tattiche destinate a durare fino alla prossima occasione più propizia dove poi si può disinvoltamente disfarle.
L’esempio più cogente è quello della guerra del Nagorno Karabak, dove Israele e Turchia si sono alleati armando con le armi più moderne l’Azerbajan contro l’Armenia in funzione anti iraniana, ma dove, dopo il 7 ottobre la Turchia si è scagliata violentemente contro Israele, evidentemente nel tentativo di assumersi la leadership del mondo islamico. Ebbene, in un contesto internazionale siffatto, l’Onu è disarmato ed impotente, e non potrebbe essere altrimenti. Lo si è visto bene nelle risoluzioni a proposito dell’odierna guerra di Gaza.
Non sarà l’Onu ad obbligare Israele a fermare l’offensiva contro Hamas, e nemmeno ad obbligarlo a fare pause umanitarie se prima Israele non avrà raggiunto i suoi obiettivi minimi. L’Onu non dispone di forze armate proprie, le missioni dei caschi blu avvengono sempre in situazioni di armistizio o di pausa delle ostilità solo quando i contendenti si sono messi d’accordo per accettare la presenza dei militari delle nazioni Unite; basta guardare cosa avviene sulla Linea Blu in Libano, dove la presenza dei Caschi Blu ( ci sono oltre mille militari italiani) è ininfluente quando Hezbollah ed Israele decidono di prendersi a cannonate. Insomma anche se riformato, per esempio cioè senza il diritto di veto all’interno del Consiglio di Sicurezza, l’Onu resterebbe un organismo debole cioè disarmato e perciò forte con i deboli e debole con i forti.
Serve qualcosa in più, in realtà servirebbe molto di più affinché un organismo internazionale possa avere voce in capitolo per controllare le spinte conflittuali armate in un mondo stipato di armi di ogni genere e dove oltretutto ci sono 9 paesi che, collettivamente, dispongono di migliaia di ordigni nucleari. Finché ogni paese possiede legittimamente un esercito con relativo arsenale, e gli investimenti nello sviluppo di armi sempre più moderne e letali sono lasciati alla ricerca di potenza delle singole nazioni nessun ente sovranazionale, indipendentemente da quale sigla lo definisca, potrà mai avere l’ultima parola nel controllo dell’aggressività nazionalista e/o imperialista.
Ma una soluzione ci sarebbe, sebbene ardita e non ancora, nella sua interezza accuratamente vagliata.
Proviamo ad immaginare un governo mondiale nominato da un parlamento che rappresenta democraticamente sia gli stati che la popolazione del pianeta, che abbia il monopolio dell’uso della forze armate, che abbia come obiettivo lo sviluppo di un sistema economico democratico; insomma, un governo mondiale centralizzato ma bilanciato da un sistema economico decentralizzato.
Che sia guidato da una carta costituzionale che prevede come prima cosa il dare ad ogni cittadino del mondo le stesse chance di progredire in ogni aspetto della vita. Una carta costituzionale che sancisca che il pianeta appartiene a tutti gli esseri viventi che lo abitano.
Sarebbe questo il famoso pianeta di Utopia? Che sia perciò preferibile aspettare la catastrofe planetaria causata dall’insaziabile famelicità e dall’incurabile miopia degli esseri umani, per poi provare a ricostruire una qualche forma di società sulle rovine radioattive?
Ogni donna e ogni uomo sensati dovrebbero riflettere su queste possibilità. Come ha detto il filosofo ed umanista bengalese P.R.Sarkar : “viviamo in un’epoca non più adatta ai grandi animali ed ai piccoli stati”.
Mettiamo perciò da parte l’Utopia (Un luogo inesistente) e costruiamo l’Eutopia (Un luogo buono).
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